#40 - Rain on New
York /4
di Yuri N. A.
Lucia
Pioggia,
cadi, cadi, cadi, sulle nostre teste, così da ricordarci che sopra di noi c’è
qualcosa.
Pioggia, cadi,
cadi, cadi, sui nostri visi, si che si debba levare lo sguardo verso l’alto e
ricordarsi che qualcuno è con noi sdegnato.
Pioggia, cadi,
cadi, cadi, su di me, monda via il peccato che mi ha lordato...
Peter
si sentiva emozionato come un ragazzino, anche se quella era già la seconda
volta che assisteva alla messa in scena del musical dove lavorava sua moglie,
per lui era ancora come essere alla prima. La piccola May guardava incantata il
palco, sembrava a suo agio, lì, tra le luci e tutta quella gente del bel mondo.
Forse aveva preso dalla madre, si augurò che fosse quello il suo retaggio,
quello che aveva da offrire lui non era altrettanto splendente. Tornò a
guardare dritto davanti a sé, pensando a quanto fossero diversi lui e sua
moglie. Ai tempi del suo libro di foto, si era ritrovato a dover presenziare ad
incontri per firmare autografi con il pubblico, party pieni di ricchi annoiati,
conferenze dove doveva blaterare solo sciocchezze. Si era sempre sentito
ridicolo in quel ruolo e fuori luogo in quegli ambienti. M.J. invece si
comportava come se fosse nata per quel tipo di vita. Non gli aveva mai fatto
mancare nulla, c’era sempre stata una forte intesa tra loro due, un grande
affiatamento, una grande intimità. Però in alcuni momenti gli sembrava che tra
lui e sua moglie esistesse una distanza superiore a quello che lui potesse
coprire con il suo amore, specie quando... sospirò, pensando che avrebbe dovuto
affrontare con lei il problema, si rendeva conto che c’era qualcosa che non
andava. Nelle ultime settimane lei nominava poco volentieri quel nome, solo
dopo la storia al porto si erano trovati a parlare di lui, e non era stata una
discussione tranquilla e pacata. Si chiese perchè ultimamente cominciasse a
pensare al suo alter ego in termini di “lui”, quasi fosse qualcosa di avulso
dalla sua personalità. Forse era il caso di fare un salto dalla Kafka per una
bella chiacchierata, forse tanti anni di attività a contatto con schifezze di
ogni genere cominciavano a farsi sentire. Ricordò la conversazione con Rucker,
e le sue parole gli sembrarono così giuste. Aveva deciso lui di imbarcarsi in
quella missione, nessuno lo aveva costretto, non poteva semplicemente voltarsi
e scaricare tutte le responsabilità di cui si era fatto carico. Era una specie
di “soldato”, da lui ci si aspettava che combattesse contro le forze del caos e
del male, le stesse che a più riprese gli avevano strappato le persone che
amava. Il suo sguardo, quasi istintivamente, si andò a posare su Norman Osborn,
seduto anche lui nella zona vip, e per un attimo anche lui lo guardò. Sul volto
di quest’ultimo, dopo alcuni istanti, si dipinse un’espressione di dispiaciuto
disappunto. Peter si rese conto di averlo guardato con odio, solo per poco,
anzi, pochissimo. Tempo che evidentemente era stato sufficiente al suo rancore
per cercare di riaffiorare. May cominciò a tirare la manica della sua camicia.
Le sorrise, mentre l’ascoltava chiedere quando la mamma avrebbe cominciato la
recita. Anna le raccomandava di non rompere la manica al babbo. Lui le disse
che tra poco sarebbe iniziata, le carezzò la testa gentilmente, con affetto.
Quando la sua piccola tornò a rivolgersi alla zia, tornò di nuovo a fissare la
zona dove gli Osborn stavano. Ora Norman chiacchierava allegramente con il
nipote, seduto tra lui e Liz, invece chiusa nei suoi pensieri. Sembrava
un’altra persona. Doveva esserlo. Perchè altrimenti, altrimenti significava che
in quel momento stava fissando l’assassino di Gwen, il suo primo amore, e di
Harry, il suo miglior amico. Sì, anche il suo, visto che era stata colpa sua se
era divenuto il III° Goblin, visto che era lui ad aver condizionato negativamente
la sua vita, spingendolo prima a divenire un tossicomane, schiavo delle droghe,
e poi un criminale folle e allucinato. No, quello era l’altro, era Goblin, che
ora non c’era più. Davvero? Quella domanda, dal tono quasi sardonico, era nata
spontaneamente dentro di lui. Eppure, per quanto si potesse dire e pensare,
l’Uomo Ragno e Peter Parker erano pur sempre la stessa cosa. Possibile che
Goblin e Norman fossero davvero due enti separati? Se il primo era così feroce
e malvagio, non lo era dunque perchè era stato liberato qualcosa che si trovava
nel secondo? E da questo generato? Ora poteva sembrare normale, innocuo, un
nonno affettuoso, interessato ai destini del nipote e della nuora, vedova del
suo unico ed amato figlio. Ma era davvero così?
“Jonah!
Ma che ti salta in mente? Qui non si può fumare!”
L’uomo
dalla faccia di cuoio. Così si sarebbe potuto soprannominare il numero uno del
Bugle, se qualcuno avesse visto l’espressione che aveva in quel momento.
“Dannate
leggi anti fumo! Ti sembra possibile che un uomo della mia età non possa
gustarsi più un buon sigaro quando più gli piace?”
“Sulla
bontà di quei sigari da due soldi che spacci per autentici cubani ho i miei
dubbi!- ribbattè ironico Robertson- Comunque nessuno ti impedisce di fumare
quando questo è lecito. A casa tua, non nei posti pubblici, dove per altro ci
sono dei bambini.”
Con
un cenno della testa indicò sulla loro destra. J.J. automatica girò la testa,
dando all’amico una nuca con i capelli cortissimi, ormai quasi interamente
bianchi e grigi. La sua espressione si raddolcì vedendo il piccolo Osborn e la
piccola Parker. Non potè non ricordare i giorni in cui suo figlio era così. Per
un ’attimo gli si strinse il cuore. Realizzò solo in quel momento tutto il tempo
che era passato. Guardò Peter e gli tornò alla mente il timido e gracile
studente che gli si era presentato in redazione, cercando un lavoro part time.
Era veramente un immagine ridicola, vestito come uno studente dei primi anni
’60, con quella camicia stirata con cura maniacale, il farfallino, il gilet,
gli occhialoni e quel taglio di capelli a spazzola. Si passò una mano sopra la
testa e sorrise. Sembrava, in quei giorni, che si dovesse spezzare in due
quando alzava la voce con lui, ogni volta che qualcuno lo riprendeva si faceva
piccolo, piccolo, piccolo. Ora stava guardando un uomo, onesto, forte, un
marito e un padre di famiglia eccezionale, ne era sicuro. Negli anni aveva
capito che in lui si nascondeva più di quanto sembrasse. Non glielo aveva mai
detto, però sapeva che non era stato facile per lui occuparsi della zia,
mandare avanti i suoi studi, lavorare contemporaneamente, quando lo zio che lo
aveva cresciuto come un padre gli era venuto a mancare. Tanti altri si
sarebbero arresi, avrebbero ceduto. Lui no. Era orgoglioso, quello era il suo
Peter.
Ilya
guardava il palco con un leggero senso di angoscia. Accidenti, non era lì per
una gara. Questo cercava di dirsi, con poca convinzione. Anche perchè gara non
ci poteva essere tra una anonima studentessa che lavorava come segretaria e una
ex top model, attrice di successo, bellissima e intelligentissima. Prima di
entrare, mentre cercavano riparo dalla pioggia, lei e Rachel lo avevano visto,
lui, accortosi di loro, le aveva invitate ad unirsi alla sua famiglia, la
figlia e la suocera, che entravano prima degli altri, essendo parenti della
protagonista. La bimba era un vero amore, aveva lo stesso sguardo dolce del
padre e il suo sorriso irresistibile. Parlava anche molto bene per la sua età e
si muoveva da una parte all’altre, facendo la disperazione della zia Anna, una
signora simpatica e dai modi molto affabili. Sembrava proprio un bel quadretto
familiare, completato da lui, completamente ed evidentemente pazzo della figlia
ed innamoratissimo della moglie.
“Hey!
Ancora impegnata a torturarti?”
“Shhh!
Vuoi che ti sentano tutti?”
“Beh,
se continui così se ne accorgeranno tutti! Mi chiedo lui come non abbia fatto
a capirlo. La signora se ne è accorta comunque.”
“Davvero?!”
“Era
troppo evidente piccola mia. Non preoccuparti, ti ha guardato con l’aria
comprensiva di chi ha capito che si trova d’innanzi un caso di cotta da
studentessa.”
“Non
dire così...”
“E
cosa dovrei dire? Andiamo, su. Devi guardarla in quest’ottica. Non credo che
lui nutrirà per te altro tipo di interesse se non una simpatia amichevole. Sai,
non l’avrei mai detto, vista la mia opinione in generale sui maschi. Ma non ha
proprio l’aria del playboy incallito. Sembra saltato fuori da uno di quei
romanzi rosa. Un uomo tutto famiglia e lavoro. Comunque anche se non è il mio
tipo, devo ammettere che è molto carino e poi anche simpatico. Ha un modo di
fare che ti mette a tuo agio. Ti dà proprio l’idea del bravo ragazzo.”
“Già...
mhhhf!”
Rucker
era visibilmente alterato, tant’è che i suoi uomini lo guardarono preoccupato.
“Cosa?
Ne sei certo? Cristo santissimo! Preparati, ci vediamo direttamente lì davanti.
No, non ho il tempo di aspettare l’autorizzazione. Muoviti, avrò bisogno di
tutto l’aiuto possibile... e forse non basterà neanche quello.”
Riattaccò
il telefono. Tutto l’aiuto possibile... sapeva che tipo di aiuto gli sarebbe
servito, non aveva però modo di contattare il ragazzo. Gli saltò in mente che
se avesse avuto la possibilità di accendere un segnale che potesse essere visto
alto nel cielo allora... che stronzata!, si disse tra sé e sé. Non poteva
pensare a certe assurdità mentre stava per svolgersi una strage. Perkins
stavolta se lo sarebbe mangiato. Meglio una sfuriata del capo che tutti quei
morti sulle sue spalle.
“Ragazzi!
Svelti. E’ tempo di muoversi.”
Donato
Gambino si sentiva, nonostante le ultime tragedie, un uomo fortunato.
Nonostante la sua età stava ancora bene e si sentiva ancora un ragazzino. Aveva
passato una bella serata a guardare uno spettacolo divertente come non gli
capitava dai bei vecchi tempi, quando i musical erano davvero dei musical.
Doveva ammettere che quella ragazza ci sapeva fare, oltre ad essere di una
bellezza travolgente, era ancora bravissima sul palco, aveva del vero talento.
Ma la vera bellezza, e la sua più grande fortuna, la teneva per mano in quel
momento. Sua moglie Concetta, anche se non più giovanissima, era sempre la
donna più bella e fantastica che avesse mai conosciuto. Non passava giorno che
ringraziasse il padre eterno per lei. Sentiva che l’amore per lei, dopo tutti
quegli anni, non era diminuito, anzi... le strinse con più forza la mano. La
guardò dritta negli occhi ricambiando il suo sorriso. Quell’istante sembrò
durare tutta una vita. Poi il sangue volò, bagnandogli il volto, il vestito,
l’asfalto su cui camminava. Era il sangue della sua donna. La vita di lei venne
strappata dal corpo in pochi secondi.
I buchi si aprirono nel suo corpo, sul lato destro della testa, un
proiettile attraversò l’occhio, penetrandogli nella spalla. Il corpo macellato
cadde in avanti, tra le sue braccia. La sua intera esistenza fu spazzata via
con ferocia in pochi istanti. Angelo aveva cercato di fargli da scudo. Quasi
subito quelli che avevano aperto il fuoco da una sportiva color grigio metallizzato, passarono ad armi a proiettili
accellerati, capaci di forare come
burro il Kevlar del giubbetto del ragazzo, che si ritrovò spinto indietro dalla
violenza dei colpi. Carmelo aveva cercato di accennare una reazione, anche lui
fu steso subito da una sventagliata di Uzi che gli ridusse il volto ad un inferno
irriconoscibile. Stevie e Matt uscirono di corsa dalla Crysler Voyager che
avrebbe dovuto scortare l’auto del boss. Ma subito questa, centrata da un mini
missile sparato da uno dei killer cinesi
giunti sin lì per giustiziare l’anziano gangster, esplose, riversando
una cascata di pezzi di mettallo bollente per la strada, dove ormai la gente,
in preda all’isteria, scappava, accalcandosi, spingendosi, pestandosi. Don, in
una pozza di sangue, stringeva con
disperazione quello che rimaneva della sua amata Conny. Le lagrime cadevano
sulle sue spoglie, così orribilmente sfigurate e il dolore sembrava volesse
strappargli l’anima. Un proiettile mise fine alla sua agonia.
Peter
si era fatto largo con la forza in
mezzo alla folla. Dovette trattenersi per non far male alla persone che
spingeva di lato. Ma in lui c’era la disperata urgenza di mettere in salvo sua
figlia e la nonna della piccola che sembravano dovessero aver ragione della sua
prudenza. Nonostante il flusso di gente, il suo fisico, cento volte più forte
di quello di un essere umano normale, riuscì a passare, aprendo un varco, in
quel fiume di carne e terrore. Le portò all’interno del teatro, forse il posto
più sicuro, almeno finchè quegli assassini sanguinari fossero stati fuori.
Arrivarono nella zona camerini, dove gli artisti erano barricati, impauriti per
i rumori che provenivano da fuori. Qualcuno aveva gridato all’attentato
terroristico e il panico si era diffuso in pochi secondi. Le immagini di quanto
successo nel teatro a Mosca erano ben impresse nelle menti di tutti. In una
città come N.Y.C. poi, ormai gridare all’attentato, significava innescare
reazioni incontrollabili. Mary Jane cercava di calmare una ragazza che in preda
ad una crisi, stava vomitando appoggiata ad una parete dai colori sgargianti.
“Peter!
Oddio, state tutti bene!”
Aveva
lei stessa mantenuto la calma a stento, perchè sapeva che sua figlia e sua zia
erano con uno degli eroi più forti ed esperti che ci fossero in città.
Nonostante questa certezza l’angoscia era stata terribile. Gli abbracciò tutti
e tre rimanendo in silenzio alcuni secondi, e, infine singhiozzando lei stessa.
“Mamma,
mamma, non piangere. Ora siamo qui! Va tutto bene!”
Sorrise
a quelle parole cariche di ingenuo ottimismo della figlia.
“Sì,
lo so. Devi scusare la mamma, ma non è coraggiosa come te.”
“Oh,
no mamma. Non peoccuparti. Ora arriva
l’Uomo Ranno e ci salverà tutti.”
Pete
e lei si scambiarono un’occhiata preoccupata. Anna, evidentemente sconvolta per
quello che stava accadendo fuori, non sembrava aver dato troppo peso a quello
che la nipote aveva appena detto. Per loro due la cosa era diversa. Perchè
aveva detto quella cosa? Non era la prima volta che la piccola tirasse in ballo
l’Uomo Ragno, ma era la prima che volta che accadeva in una circostanza simile.
Proprio in quel momento arrivò Norman con Liz e suo nipote.
“Grazie
al cielo siete quì! Anche voi avete avuto il buon senso di venire qui.”
M.J.
sembrava a disagio per l’improvvisa comparsa del vecchio Osborn e anche Peter
lo era ma cercò di dissimulare quella sensazione per non far capire nulla alla
povera Liz e a suo figlio.
“Ma
cosa sta succedendo? E’ davvero un’attentato?”
Disse
la sua amica ed ex fiamma.
“No.
Non credo. – disse Pete, parlando in tono conciso. - Ho intravisto qualcosa.
Hanno colpito un bersaglio specifico, una coppia. Sa più di regolamento di
conti. Vado a cercare di vedere se la polizia è arrivata e se si può uscire di
qui in modo sicuro, voi aspettatemi e non muovetevi.”
“Vengo
con te ragazzo...”
“No!”
La
sua risposta alla proposta di Norman fu così violenta che tutti i presenti
sussultarono. Il piccolo Normie guardò interdetto quello che sapeva essere
stati uno degli amici più cari del papà e poi il nonno che pensava, per tanto
tempo, morto.
“Volevo
solo...”
“Rimani
qui. Occupati di loro. Mi raccomando a te...”
Quell’ultima
richiesta aveva più il sapore di una
minaccia che di una raccomandazione.
“...io...sì,
non preoccuparti. Ci penso io.”
Norman
si sentiva dispiaciuto e... vinto. Il suo passato lo avrebbe tormentato per
sempre. Forse era giusto così, visto tutto il male di cui si era macchiato.
Robbie
e Jonah proprio non riuscivano mai a passare una serata che non si tramutasse
in qualcosa di disastroso. Ma stavolta le superava tutte. Si erano ritrovati
invischiati in quella che sembrava una guerra tra bande... no, un regolamento
di conti, si corresse Robbie, che di queste cose aveva un’esperienza pluri
decennale. Si scambiò un’occhiata di intesa con Jonah che evidentemente
condivideva il suo stesso parere. Non avevano macchine fotografiche con sé,
altrimenti sarebbe stato un bel colpo per il giornale. Però al momento c’erano
cose più urgenti. Soccorrere i feriti che erano rimasti coinvolti nell’accaduto
e cercare di sopravvivere, se possibile.
Rucker
praticamente saltò giù dall’auto che ancora si muoveva a diversi metri dalla
scena dell’accaduto. Dette degli
ordini concitati, con gesti autoritari che non ammettevano repliche.
Estrasse dalla fondina ascellare una Glock 17 e una Cougar 8000 da dietro.
Indossava un giubbotto di Kevlar Hell-Boy, dotato di uno speciale rinforzo
interno, in grado di resistere a proiettili di medio calibro sparati anche da
distanze medio-brevi. Corse tenendo il profilo basso, usando le auto come
riparo, cercando di raggiungere i sicari dalla parte opposta, rispetto a dove
ora stavano concentrando il fuoco. Contò due auto. Una Audi A8, il modello
dell’anno scorso, di color grigio argento. Una Chevrloet Trailblazer, stesso
colore. Nella prima vide quattro uomini, che si erano portati, dopo essere
usciti, dietro il veicolo, la cui carrozzeria, a giudicare da come la usavano
come riparo, doveva essere rinforzata con lastre ceramiche, resistenti come un
blindo, molto più leggere, estremamente di moda i criminali. Due uzi, un fucile
a proiettili accelerati latveriano, un A391 3.5.
La
Traylblazer era leggermente arretrata rispetto alla A8, e più vicina al
marciapiede. I suoi occupanti erano rimasti dentro. Cinque, volto coperto come
gli altri, non riusciva a distinguere le armi che avevano, sicuramente anche
loro si trovavano con almeno un fucile a impulso. Sputò in terra, come faceva
sempre quando doveva scaricare la tensione per poter poi agire con il massimo
della freddezza.
“Ok
Rookye. Ora tocca a noi.”
Punto
alla spalla di quello che aveva l’arma ad impulso, la più pericolosa. Avrebbe
potuto superare la protezione offerta dalle auto parcheggiate. Aprì il fuoco,
quello si contrasse per il dolore, lasciando cadere quasi subito la micidiale
arma. Scott, che si era portato più avanti di lui passandogli di fianco invece
aprì un fuoco di copertura, puntando ai vetri anti proiettile della Chevrolet.
Il veicolo in questione mise in moto e senza pensarci su due volte eseguì una
manovra di fuga, allontanandosi dalla sparatoria con la polizia, nella quale
evidentemente non voleva essere coinvolta. Rucker si abbassò in tempo, per
evitare le due cartucce super magnum sparate dall’arma a gas che usavo uno dei
cinesi. Il muro davanti a lui si ritrovò con due bei buchi. Ghignò maligno.
“Se
vuoi farmi fuori, devi fare di meglio bimbo.”
Si
alzò di scatto girandosi e aprì il fuoco con tutte e due le pistole
contemporaneamente. Non aveva scelta. Scott colpì alla testa un tizio grande e
grosso, che stringeva un altro uzi, estratto dal trench, mentre lui colpì a
morte il ragazzo con il fucile, bucandogli la testa, e ferì alle gambe l’altro
che cadde a sedere a terra. Lasciò quasi subito l’arma e alzò le mani in segno
di resa. L’altra auto ormai era lontana. Sicuramente si dirigevano verso un
posto per loro sicuro e per organizzare dei posti di blocco era troppo tardi.
Imprecò tra i denti. Poi alzò lo sguardo, quasi guidato dal suo istinto.
Sorrise soddisfatto mentre una macchia rossa e blu sfrecciava veloce sopra la
sua testa. Per un attimo si erano scambiati un’occhiata, o almeno era sicuro
che avesse contraccambiato la sua.
“Acchiappali
tu quei bastardi!”
Prese
dalla tasca interna del suo soprabito un pacchetto mezzo accartocciato di
sigarette, ne trasse fuori una e se la accese con il suo vecchio accendino. I
suoi uomini tenevano sotto tiro gli unici dell’Audi, che non fecero resistenza
quando gli misero le manette ai polsi. Rucker tirò una boccata del suo dolce
anestetico.
“Signore
l’altra macchina è...”
“L’ho
vista. Comunica di tenere d’occhio le vie che vanno al porto e gli accessi all’autostrada.
Comunque, tra un po’ qualcuno ce li impacchetterà per bene.”
“Cosa...”
Poi
si interruppe, e capì.
Era
un predatore che seguiva la preda. Osservava dall’alto il veicolo, che gli
pareva piccolo, eseguire tutta una serie di manovre elusive. Non c’era che
dire, l’autista era bravo, un esperto. Non era la prima volta che lo faceva, né
la prima volta che quelle bestie commettevano una strage del genere. Ripensò a
quello che aveva visto. Immaginò, solo per un’insopportabile istante, che in
quella pozza di sangue ci fossero state May e M.J. Digrignò i denti sotto la
maschera.
Shao
era entusiasta, quel lavoro era riuscito veramente bene, anche se quei fessi
del gruppo di Kevin si erano fatto beccare. Comunque non era un loro problema,
dovevano solo raggiungere il molo dove avrebbero nascosto l’auto e sarebbero
stati a posto. La vita non va sempre come speri che vada, questo imparò quella
sera il giovane Shao. L’auto si bloccò all’improvviso e solo gli air-bag di
serie gli salvarono il volto da un brutto impatto. Leggermente stordito e con
le orecchie che fischiavano per via dello stridere delle gomme che ancora
giravano sull’asfalto, si girò e fu allora che vide la forma delle sue paure
materializzarsi. Era proprio come quei demoni dell’ombra che gli descriveva
sempre il nonno, le lunghe notti al villaggio, quando lui gli chiedeva con
insistenza di raccontargli le favole. Al paraurti posteriore era appiccicato
quello che sembrava un grosso filo, pieni di grovigli e nodi, la cui altra
estremità era tra le mani del diavolo, dal volto di sangue e dai grandi occhi
d’argento, che tirava e tirava, trascinandoli verso di sé, verso una fine
orrida sicuramente. Disperato, impaurito, sfondò il lunotto posteriore con il
calcio del suo fucile Marui Riot 12, e aprì il fuco. Ma difficilmente si centra
al primo colpo un’ombra. Era sparito, un attimo prima che le cartucce
arrivassero sul bersaglio. Urlò quando il tetto dell’auto fu sfondato e un mano
lo afferrò da dietro il bavero della giacca, tirandolo su di colpo. Non sentì e
non vide più nulla mentre scivolava nell’oblio.
Il
senso di ragno premette con vigore dietro la nuca, urlandogli di stare in
guardia. Saltò verso destra, evitando la raffica di proiettili che furono
sparati verso l’alto, forando il metallo e che lo avrebbero ridotto ad una
poltiglia sanguinolenta se lo avessero colpito. Con facilità, derivatagli da
uno scheletro due volte più flessibile di quello umano, si piegò all’indietro,
quasi a toccare terra ma tenendosi leggermente sollevato. Scivolò rapido sotto
l’auto e, puntate le spalle a terra, la sollevò all’improvviso.
“Molto
bene gente, ora ascoltatemi. Non sono dell’umore per trattare con voi. Non dopo
quello che avete fatto. Quindi datemi retta, buttate via le armi senza troppe
storie.”
Nessuna
risposta.
“Allora
abbiamo dei duri qui eh? Vediamo se anche lo stomaco è così duro.”
Lanciò
l’auto in alto e questa ruotò su se stessa. All’interno gli occupanti urlarono.
Finì contro i piedi dell’ Uomo Ragno che aveva alzato le gambe. La lanciò con
più potenza verso l’alto. Stavolta si alzò per quasi sette metri, girandosi sul
fianco sinistro. Di nuovo la lanciò in aria, con ancora più forza. Si mise in
piedi e prese l’auto che cadeva con il muso rivolto verso il basso. La fece
ruotare, girando su se stesso sei volte. Alla fine quelli vennero fuori
vomitando, dopo aver gettato le armi lontano dai finestrini.
“Sono
lieto di vedere che siete tornati alla ragione. Ora, prima che arrivino i miei
amici poliziotti, facciamo quattro chiacchiere.”
Erano
seduti ad un elegante tavolo di fattura italiana, su comode sedie inglesi,
imbottite, mentre una cameriera orientale, molto discinta, serviva il thè e
alcuni dolcetti.
“E’
un piacere per me, vedere che alla fine si è dimostrato un uomo ragionevole,
venendo qui a parlare con me. Andrò subito al dunque, perché so che lei è un
uomo che non ama troppo le sottigliezze. Abbiamo un comune problema,
sicuramente immaginerà di cosa sto parlando. Finora, mio caro signore, i suoi
tentativi per sbarazzarsene sono stati poco fruttuosi.”
“Non
mi dice niente di nuovo...”
Rise
sarcastico.
“Eppure
terribilmente vero, no?”
Sorrise
affabilmente, anche se negli occhi, per un attimo, fece capolino un guizzo di
crudele beffa.
“Feng,
per piacere, vuoi attivare il proiettore?”
Il
fedele braccio destro si recò dietro un tavolo, sulla cui superfice,
apparentemente di legno coperto da venature, ad un gesto, comparvero i
comandi di una console. Sfiorò con l’indice alcuni tasti e mentre la stanza
piombava in una semi oscurità, una sezione del muro alle spalle di Xiu Jingu,
diveniva prima azzurra, poi cominciò a coprirsi di immagini. C’era una data in
alto a destra, cambiava ogni 2 minuti. Diversi filmati, diversi esperimenti.
“Che
cosa è?!”
Chiese
sorpreso mentre vedeva gli uomini del filmato compiere azioni a dir poco
mirabolanti.
“I
soldati P., una delle nostre armi di punta. Uomini precedentemente addestrati
ad altissimi livelli e sottoposti ad uno speciale trattamento potenziante.”
“Ah!
Che tipo di trattamento?”
Chiese
curioso, lasciandosi scappare frammisto nella voce una nota di impazienza e di
speranza.
“Lei
sicuramente conoscerà la storia di uno dei vostri più famosi e vecchi eroi.
Capitan America.”
“Cosa
c‘entra lui in tutto questo?!”
Il
pensiero delle umiliazioni patite per mano del discobolo in passato lo fece
infuriare, si controllò a stento, reprimendo il desiderio di buttare giù il
muro dove ora capeggiava l’immagine dell’odiato nemico.
“Per
anni il siero che gli diede le sue facoltà al tempo della Seconda Guerra
Mondiale, è rimasto un mistero. La sua formula era conosciuta solo
dall’inventore, che morì durante un attentato, proprio poco dopo che venne
creato il primo ed unico esemplare di Super Soldato al mondo... o almeno prima
che noi venissimo in possesso di una formula analoga che ne riproduce
perfettamente gli effetti.”
“Balle!
Ci hanno provati tanti a tirar fuori un’altro siero del super fantoccio! E
sapete con che risultati???!”
“Nessuno,
però, mio caro signore, aveva la nostra esperienza. Mi creda, abbiamo trafugato
informazioni preziosissime dai servizi segreti cinesi... in cambio di favori e
denaro. Certo, non abbiamo ancora un processo di produzione che ci consenta di
ottimizzare i tempi o ridurre i costi... ma quello che lei ha visto è il frutto
del Siero del Super Soldato! Chang, Quong...”
Al
battere delle sue mani, la porta si aprì e fecero il loro ingresso due
torreggianti ragazzi, il cui aspetto non poteva essere definito in altro modo
che perfetto.
I
due osservarono silenziosamente l’invitato del signor Xiu, quest’ultimo a sua volta
ricambiava il loro sguardo freddo e silenzioso.
“A
che gioco vuoi giocare con me, muso giallo?”
“Ahi!
Che espressione arcaica e poco politically correct, da uno come voi mi
aspettavo di più e anche maggiore intuitività. Avevate dei dubbi su quel che ho
detto prima? Ecco la dimostrazione che non mentivo. Attaccate!”
Con
una velocità e una coordinazione tale dall’avere dello strabiliante, i due si
lanciarono in un assalto sincronizzato contro l’uomo che li evitò solo per un
secondo. Senza perdere tempo i due si portarono ai lati opposti del loro
bersaglio, cominciando a girargli intorno. Per evitare di trovarsi uno di loro
due alle spalle cominciò a girare su se stesso. Volevano stordirlo per poi
finirlo, solo che lui non ci stava a farsi mettere nel sacco così. Estrassero
delle armi, uno o due nun-chuck e l’altro una corta spada dalla lama semi
ricurva. Era una danza mortale al centro del quale stava la vittima, che
rifiutava quel ruolo che sembravano avergli assegnato. Non si era mai lasciato
mettere sotto facilmente e di certo non intendeva farlo ora. Scattò in avanti,
tenendo i polsi incrociati, puntando a quello con la spada. Non reagì fino
all’ultimo, quando praticamente poteva guardargli nelle pupille. Si scansò con
una rapidità stupefacente. Andò a finire contro la parete dove poco prima erano
passati i filmati, riducendola in polvere. Passò in un ambiente attiguo,
leggermente più grande, meno ammobiliato e dall’aria più “ufficiale”. Si girò
in tempo per vedere due ombre entrare velocissime nella stanza illuminata solo
da due coppie di faretti montati in terra e sul controsoffitto bianco. Di nuovo
nel mezzo! Stavolta furono loro a prendere l’iniziativa. Sentì qualcosa di duro
colpirlo alla base della nuca e generargli un forte dolore e stordimento. Se
non fosse stato per la sua resistenza fuori dall’ordinario sarebbe crollato a
terra come un sacco di patate. Urlò quando quello con la lama gli aprì i
vestiti ferendolo all’addome. Un taglio superficiale, ma gli aveva fatto
chiaramente capire che se avesse voluto sarebbe andato più a fondo. Cercò di
colpire di nuovo, ma quello con i nun chuck era abile e veloce, si piegò
all’indietro in tempo, evitando un pugno che gli avrebbe staccato la testa di
netto, mentre da dietro colpì quello che l’aveva ferito, un calcio volante
mirato alla schiena, vibrato con forza superiore alla norma e con grande
maestria. Stavolta si piegò sul ginocchio sinistro, ringhiando come un animale
rabbioso, mentre fendeva aria vuota con il braccio la dove prima c’era il suo
aggressore. Piantò una mano a terra e sollevando la sua massa cercò di colpire
quello che ancora stava davanti a sé con un potente calcio ma l’altro, per
nulla impreparato, lo bloccò proprio con le gambe e ruotando sulle spalle
all’indietro lo sollevò da terra, mandandolo a sbattere contro una colonnina di
marmo con sopra un vaso che andò in frantumi. Si rialzò più in fretta che poté,
un pugno velocissimo lo prese in pieno volto facendogli bruciare una guancia.
Prese una parte della colonna e cercò, indolenzito per l’impatto di colpire il
nemico che si era portato a distanza di sicurezza. Un altro pugno, di nuovo
dietro la nuca. Si girò solo per ricevere un calcio alla coscia che lo prese
sui fasci nervosi, paralizzandogliela, e uno nelle costole. Cercò di colpire di
nuovo, con una finta, scattò stavolta all’indietro, prendendo con una gomitata
lo spadaccino che per il dolore mollò l’arma e lanciò un grido strozzato.
“Bene,
bene, basta così prego. Non vorrà uccidere due dei miei uomini migliori?”
Jingu
era là, appena al di là del foro nella parete, che applaudiva compiaciuto e con
un sorriso raggiante sul volto.
“Vorrei
ammazzare te brutto...”
“Su
andiamo! Siamo tra adulti qui! Senza contare che nel palazzo ci sono altri 10
come i due che ha appena affrontato, armati sino ai denti e fedelissimi al
sottoscritto. Senza contare il buon vecchio Feng.”
Con
un cenno indicò il silenzioso orientale, leggermente dietro ma pronto, in pochi
istanti, a farsi avanti.
“Non
lo sottovaluti. Parla poco, ma agisce bene.”
Sputò
in terra, guardandoli con odio e disprezzo.
“Volevate
impressionarmi con questo giochetto?”
“Volevamo
farle capire una cosa molto semplice. Il Siero, ha la capacità di risvegliare e
realizzare il potenziale latente di qualsiasi persona. Ora, questi due erano
due assassini professionisti, pur sempre umani però, privi di poteri para
umani. Eppure guardi! Agilità, velocità, forza fisica! Tutto ai massimi livelli
consentiti dal corpo umano! E il loro cervello? Avrà notato la coordinazione,
la precisione con cui agivano. Immagini, solo per un attimo, cosa accadrebbe se
un essere dotato di super poteri venisse sottoposto ad un trattamento con il
Siero?”
Soppesò
quelle parole come se stesse gustando il più dolce dei piatti.
Sogghignò.
“Ah
Jingo! E’ un piacere trattare affari con lei!”
Mary
Jane guardava fuori dalla finestra.
“E’...
e’ proprio necessario che tu lo faccia?”
“Vorrei
che ci fosse un altro modo. Ma non c’è. Io... devo. Lo hai visto anche tu che
animali che sono! Se non ci pensassi io...”
“Ci
sarebbe pur sempre la polizia. E poi questa è o no la Grande Mela? Dove sono
gli altri eroi in calzamaglia? Perché dovresti fare tutto da solo? Non possono
pensarci anche loro?”
Peter
non riuscì a sostenere il suo sguardo carico di disapprovazione.
“Non
è semplice come sembra… ognuno di loro ha i suoi bei problemi a cui badare. Lo
so anche io che un po’ di aiuto mi farebbe comodo ma…”
“Ma
cosa!?! I Fantastici Quattro e i Vendicatori sono troppo impegnati a giocare
contro scienziati pazzi, nemici da operetta e minacce interdimensionali per
occuparsi di questo macello? Allora dovrai pensarci tu da solo? Dovrai essere
l’unico a rischiare tutto!? E poi perché questa decisione di…”
“M.J.!
Ti prego! Non rendere tutto così difficile! Devo farlo, non ho scelta!”
Lei
gli girò le spalle.
“Certo
che lo farai!- tratteneva a stento la rabbia, mentre stringeva i pugni- Lo fai
sempre vero? Dai la precedenza a tutto e tutti… fuorché alla tua famiglia.
Bell’eroe…”
Rimase
senza parole. La fissò a lungo, non sapendo cosa ribattere. Poi silenziosamente
si girò ed uscì dalla stanza.
Lei
pianse tanto quella sera.
La
pioggia lo colpiva impietosa, quasi volesse punirlo per quello che aveva fatto.
Sentì di lontano un tuono, tirò su il bavero della giacca e tirò dritto. Aveva
colpito tante volte duramente l’animo della donna che amava, ora però era
andato oltre. Stavolta era stato diverso, da parte sua aveva percepito quasi il
desiderio di mettere distanza tra sé e la fonte delle sue sofferenze e come
poteva darla torto? Cosa stava facendo? Perché stava portando la situazione a
quel punto? Voleva proprio distruggere la sua famiglia? Dopo tutto quello che
aveva visto… dopo le notizie ricevute… non poteva fare altrimenti, anche se
sapeva che il prezzo delle sue azioni lo avrebbe pagato forse per sempre.
Jonah
si stava lamentando di brutto mentre l’infermiere gli cambiava il bendaggio.
“Deve
proprio fare così male?!”
“Se
le fa male è un buon segno! Vuol dire che il braccio c’è ancora:”
“Ma
chi è lei? Il Dick Van Dicke dei poveri?! Robbie! Fai qualcosa!”
“Ha
ragione J.J., è un miracolo che tu te la sia cavata con così poco.”
“Tze!
Ne ho passate di peggio io! Quando andai in Corea…”
“Si,
lo so già! Me lo hai raccontato un milione di volte. Non è necessario che tu
ora ammorbi anche questo ragazzo che sta solo facendo il suo lavoro.”
“Dovrei
buttarti fuori dal giornale per quello che hai detto! Brutto ingrato che non
sei altro… comunque… come sta la ragazza…”
“Stazionaria-
intervenne l’infermiere che aveva pazientemente ascoltato in silenzio il
battibecco tra i due vecchi amici -, anche se le previsioni non sono delle più
rosee. Il proiettile ha preso una zona piena di vasi sanguigni. E’ stata operata
d’urgenza e domani dovranno rioperarla probabilmente. Se non ci foste stati voi
a darle il primo soccorso…”
Jonah
si sentì torcere lo stomaco. Rivedeva con gli occhi della mente quella povera
bambina riversa a terra, presa da una pallottola vagante. La sua amica le stava
a fianco, sconvolta, mentre con le mani cercava inutilmente di tamponarle
l’emorragia.
“Che
mondo schifoso…”
Sussurò
tra sé e sé.
Ilya
era una bella bimba di 6 anni. Contenta che il papà fosse a casa per giocare
con lei.
Ilya
rideva e rideva mentre lui le faceva fare il cavalluccio sul ginocchio.
Ilya
era tanto felice, perché il suo babbo e la sua mamma erano lì e le sembrava che
tutte le cose del mondo con loro andassero a posto.
Ilya
sognava su un letto d’ospedale, mentre Rachel piangeva fuori nel corridoio.
Rucker
aspettava nel posto concordato. Un tizio, con la voce camuffata, lo aveva
avvertito che lui voleva incontrarlo. Un luogo appartato, una piccola vecchia
chiesa cattolica nel Queens, pochissime vecchiette che pregavano davanti ad un
altare che avrebbe avuto bisogno di più di un restauro.
Lui
si sedette dietro, era arrivato silenzioso come un ombra. Indossava un lungo
soprabito e un cappello a tese larghe, decisamente fuori moda, con cui copriva
il costume e la maschera. Un travestimento sopra un travestimento, in altre
occasioni quel paradosso lo avrebbe divertito molto. Ora c’era poco da ridere.
“Sono
contento che tu sia venuto.”
“Non
mi sarei perso questo incontro per nulla al mondo, senza contare che ti debbo
già tre favori. Spara tutto.”
“Voglio
Xiu Jingo. Voglio i Jong.”
“Siamo
in due allora.”
“Avrò bisogno di informazioni. Luoghi, depositi di roba, bordelli, quante armi hanno e da dove vengono. E’ una guerra Rucker, non voglio perderla.”
“Benvenuto
a bordo figliolo.”
I
due, senza più dire una parola, cominciarono a pregare.
In una località sulla costa iberica:
“Sono
pronto a partire signore. Mi sincererò che la partita di P.O.W.E.R. sia
consegnata a mr. Xiu Jingo come lei desidera.”
“Ottimo
ragazzo, ottimo. E’ uno dei nostri migliori clienti, e anche un discreto
giocatore di Tennis. Mi dispiacerebbe davvero perderlo. Non saprei con chi
altri giocare. Nel giro dei nostri affari fanno tutti schifo. Nessuno che
sappia disputare almeno due set decenti. Fai buon viaggio e salutami la vecchia
Grande Mela.”
“Grazie
Signore. Porterò i suoi saluti.”
Il
magazzino non sembrava particolarmente sorvegliato. Rookie passò il binocolo a
visione infrared al ragazzo. Peter dette un’occhiata dentro. Cinque uomini,
sembrava non ce ne fossero altri.
“Sicuro
che siano tutti lì?”
“Si.
E’ da quando li abbiamo seguiti che stiamo controllando. Direi che le cose sono
proprio come sembrano.”
“Non
lo sono quasi mai.”
“Vero
anche questo.”
“Che
pensi?”
“Questo
trasferimento di armi… tutto troppo improvviso. E poi li abbiamo seguiti con
troppa facilità.”
“Temi
una trappola?”
“Potrebbe
essere. Non lo escluderei.”
“Per
voi?”
“No.”
“Credi
che il comitato là dentro stia aspettando il sottoscritto? Il buon vecchio Uomo
Ragno di quartiere?”
“Temo
di sì…”
“Sei
troppo paranoico. Ma mi sa che mi stai contagiando. Comincio a pensare anche io
che ci sia qualcosa che non quadra.”
Rookye
meditò su quella sensazione. Decisamente era anormale, non poteva portare i
suoi uomini là dentro se non era più che sicuro che la situazione fosse sotto
controllo. Il filo dei suoi pensieri venne improvvisamente interrotto.
“Io
vado là dentro.”
“Non
fare sciocchezze.”
“Non
ho voglia di rimanere qua tutta la notte. Potrebbero venire a ritirare le armi
e così le cose si complicherebbero.”
Sapeva
che qualcosa che non andava c’era. Il senso di ragno era sul chi va là, questo
significava che effettivamente là dentro era stata allestita una trappola.
Tuttavia quando il suo pensiero correva alla voce di Rachel che lo avvertiva
telefonicamente di quanto accaduto ad Ilya…
“Voi
copritemi le spalle. Cercherò di rendervi il lavoro più facile.”
“Cerca
di non farti ammazzare.”
Gli
dette una pacca sulla spalla, un attimo prima che spiccasse un balzo verso il
palazzo di fronte, da cui agganciò il basso fabbricato con una tela. Scivolò
lungo essa con grande abilità e arrivò sul tetto del magazzino in breve tempo.
“Qui
Rucker. Mansel, Scott, Ricotti, preparatevi all’azione. Intervenite solo quando
ve lo dirò io.”
Chiuse
il contatto della sua radio e andò alle scale.
Sfondò
il lucernaio, contando di gettarli così nel panico. L’azione avrebbe dovuto
essere rapida, in modo da ridurli all’impotenza in un batter d’occhio. Ma non è
così che andò. I loro tempi di reazione furono decisamente superiori a quello
che aveva immaginato. Evitò per un pelo un attacco portato da due di loro
contemporaneamente. Avevano cercato di prenderlo da due lati diversi,
contemporaneamente. Si tirò indietro, piegandosi in modo inumano, per evitare
un colpo di coltello vibrato contro di lui, dandosi una spinta con una mano un
attimo dopo, per evitare un calcio diretto alla gamba. Si sollevò in aria per
tre metri, ruotando su se stesso. Riatterrò in piedi e cercò di colpire a
sorpresa quello dietro. Però il suo attacco andò a vuoto. Il bersaglio si
spostò di lato e per poco non fu preso da un colpo di pistola esploso da un
terzo uomo che si era messo in una posizione tale per cui gli era facile tenere
sotto controllo quasi tutto il perimetro dell’edificio in cui si trovavano. Un
unico grande ambiente, in cui non c’erano divisori o punti in cui nascondersi.
Il posto ideale per un’imboscata. Il senso di ragno lo aveva avvertito per
tempo, salvandolo da una brutta fine, tuttavia non poté evitare la carica di
uno degli uomini dei Jong, che lo prese mentre non aveva ancora toccato terra,
riuscì solo a rilassare in tempo il corpo per non finire con la schiena rotta
mentre questo lo placcava a testa bassa da dietro. Era troppo forte e veloce,
come gli altri del resto, riflessi eccessivamente rapidi… paraumani? Potenziati
in qualche modo? Mutanti? Chi poteva dirlo. Lo afferrò dietro la nuca,
spingendo in avanti con forza, più di quanta ne avrebbe usato per un essere
umano normale. In questo modo si portò di nuovo dove si trovava e lo mandò a
sbattere contro una delle pareti
più corte che si crepò vistosamente, là dove la testa del cinese la colpì. Un
altro balzo e si portò sulla parete antistante a quella dove stava il tipo con
la pistola. Si proiettò in avanti, mentre i muscoli delle sue gambe lavoravano
in un modo in cui quelle di un umano ordinario non avrebbero potuto fare. Il
suo obbiettivo provò a sparare ma aveva lanciato preventivamente del fluido dai
suoi lancia ragnatele, bloccando la canna della sua S9000, lasciò cadere
rapidamente l’arma, prima che gli esplodesse tra le mani e si spostò sulla
destra un attimo prima che gli arrivasse addosso. Rise tra sé e sé.
“Sono
in giro da troppo – pensò – per non aver calcolato questo.”
Prima
di colpire il muro, portò le mani avanti, frenando il suo volo e ammortizzando
l’impatto grazie all’elasticità dei suoi arti. Sforbiciò all’improvviso,
colpendolo con un calcio alla spalla e mandandolo contro delle casse
accatastate che andarono in pezzi. Dentro c’erano delle armi. Si staccò dalla
parete con una leggera spinta, cercando di evitare un altro colpo di pistola.
Un altro gli si era fatto da presso, mentre un compagno cercava di impedirgli
di indietreggiare tenendolo sotto tiro. Un getto improvviso di gas che uscì
dalla manica del tipo fece urlare il suo senso di ragno. Si trattava di
qualcosa di letale. Cercò di spostarsi indietro. Saltò evitando un colpo di
spada che avrebbe spaccato le sue costole, volando sopra la testa dello
spadaccino che si chinò evitando un colpo che lo avrebbe stordito. Erano bravi,
e maledettamente veloci e resistenti. Un disco sibilò vicino alla sua testa, lo
evitò proprio all’ultimo sempre grazie al suo fido sistema di all’arma. Aveva
già visto una cosa del genere. Un A-300 modello Nomad, costruito da Smith e
Wesson. Titanio e uranio impoverito all’interno, roba che se lo avesse preso
sulla tempia l’avrebbe ucciso. Non stavano scherzando. Volevano farlo fuori.
Altri tre dischi, uno dei tre lo prese all’avambraccio destro che aveva
preventivamente alzato per difendersi. Il dolore che provò quando il metallo
cozzò contro l’osso fu terribile. Il costume si era lacerato in quel punto e si
era aperto un taglio profondo da quale per alcuni istanti zampillo un fiotto
rosso. Si lanciò in aria, prendendo al volo una cartuccia di fluido dalla
cintura. Alcuni proiettili cercarono di mordergli le carni, ma raccogliendo le
ginocchia al petto e incassando la testa tra di esse per un breve istante,
riuscì ad evitarli. Lanciò la cartuccia su due che si trovavano vicino. L’aveva
manomessa al volo, usando la forza delle sue dita, e quando toccò terra
esplose, liberando una gran quantità di materiale filamentoso che imprigionò i
killer. Ne rimanevano due. Purtroppo, quando tocco terra e si girò, uno gli era
proprio di fronte, evitò un paio di colpi, ma riuscì ad assestargli una
ginocchiata sulla coscia, distratto per un attimo, prese in pieno volto un
pugno che spaccò una della sue lenti. La guancia doleva come se gli avessero
passato fuoco liquido sopra. Bloccò un altro pugno velocissimo che lo avrebbe
preso sul naso, ma l’altro aveva estratto all’improvviso una pistola. Evitò,
spostandosi, di essere colpito in pieno petto, ma stavolta si aprì un buco
nella spalla. Mentre evitava il colpo ruotò il polso del tizio, rompendolo,
attirandolo contemporaneamente in avanti e facendo compiere al suo corpo una
proiezione a mezz’aria. Atterrò sbattendo la schiena. Si girò verso l’ultimo
rimasto. Il dolore alla spalla era lancinante, il suo organismo stava cercando
di anestetizzarlo ma la coscia sembrava paralizzata. La stessa in cui era
passato il proiettile la scorsa settimana. L’aveva sforzata troppo, ed
evidentemente era ancora in via di recupero. Per questo quando provò a saltare
una fitta fortissima gli stritolò il cervello. Era la fine. Lo capì in
un istante. Era arrivato alla fine del gioco e tutto quello che riusciva a
pensare era che gli dispiaceva che avvenisse così. Senza poter riabbracciare la
sua famiglia. La tempia del ragazzo che gli stava di fronte con la pistola
puntata all’altezza della sua testa esplose in tante piccole schegge d’osso,
riversando verso l’esterno sangue e materia grigia che andarono a imbrattare il
pavimento e parte della parete. Per la seconda volta Terenzio Rucker gli aveva
salvato la vita. I poliziotti avevano circondato i quattro rimasti, quello
svenuto tra le casse andate a pezzi, quello con il polso fratturato sdraiato in
terra, quelli che si dibattevano inutilmente nella massa grigiastra piena di
nodi e rigonfiamenti che li aveva intrappolati. L’Uomo Ragno cadde in
ginocchio, tenendo una mano sulla ferita. Il sangue si sarebbe coagulato
rapidamente, come al solito, ma non abbastanza, era un buco troppo grosso,
doveva tamponarlo e fasciarlo. Rucker gli si era fatto subito d’appresso,
strappandosi la camicia e cercando di medicarlo alla bene e meglio. Fissava il
corpo inerme di quello che avrebbe potuto essere il suo assassino. Terenzio gli
parlava, cercava di scuoterlo dal torpore che sembrava averlo colto
all’improvviso ma lui non rispondeva. Nei suoi occhi, dietro quelli del Ragno,
c’era un immagina che sarebbe rimasta indelebile per tutta la vita nella sua
mente.
Fine quarta parte...